N. 532/2001 R.G. SENT.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Sanremo,
dott. Eduardo BRACCO ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel procedimento penale n. 1004/2000 R.G. notizie di reato
e n. 6490/2000 R.G. G.I.P.
CONTRO
e X Y, nato a ... il ..., domiciliato in ..., difeso
di fiducia dall'Avv. Eugenio Aluffi del Foro di Sanremo
Libero - presente
W Z, nato a ... il ..., domiciliato in ..., difeso di
fiducia dall'Avv. M. Laura Leone del Foro di Sanremo
Libero - contumace
IMPUTATI
artt. 110 e 640 bis C.P. perché, in concorso tra
loro, mediante artifizi e raggiri, inducendo in errore il dott. H
J, dirigente del settore sicurezza sociale del Comune di Sanremo, si procuravano
un ingiusto profitto con conseguente danno per il Comune di Sanremo, ottenendo
la erogazione di un contributo di lire tre milioni; in particolare esibivano
al dirigente comunale un contratto da cui risultava falsamente la locazione
dal W al X di un appartamento e così consentivano a quest'ultimo
di fruire di un contributo integrativo del trattamento pensionistico (in
realtà sia il W che il X convivevano in appartamento locato da terza
persona, dividendosi le spese di affitto).
In Sanremo dal mese di ottobre 1999 al mese di gennaio
2000 (il contributo veniva erogato in più rate).
Conclusioni:
Il P.M. chiede il rinvio a giudizio; in subordine chiede
che sia sollevata questione di legittimità costituzionale per violazione
dell'art. 3 della Costituzione.
I difensori chiedono che sia emessa sentenza di non luogo
a procedere perché il fatto non sussiste o in subordine perché
non è previsto dalla legge come reato, dovendosi qualificare come
violazione dell'art. 316 ter, comma due (ipotesi costituente illecito amministrativo).
MOTIVI DELLA DECISIONE
Nell'ottobre 1999 X Y si presentò all'assistente sociale
del Comune di Sanremo K H, rappresentando di essere sottoposto a sfratto
esecutivo, di disporre dell'unica fonte di reddito costituita dalla pensione
sociale e di non essere in condizioni di fittare un altro alloggio.
Gli fu spiegato che, per usufruire di un contributo,
avrebbe dovuto esibire un regolare contratto di locazione.
Qualche giorno dopo, X presentò ai funzionari
del Comune detto contratto, dal quale risultava che aveva preso in locazione,
da tale W Z, un appartamento sito in Sanremo, alla Via Pietro Agosti n.
195, per il canone mensile di lire 550.000.
Funzionari del Comune (la citata K ed il dirigente dei
servizi sociali J H), verificato che il X disponeva dei requisiti necessari
per l'assistenza pubblica, disposero l'erogazione in suo favore di un contributo,
per consentirgli di pagare il canone di locazione.
Nel dicembre 1999, come riferito dalla teste K, il “locatore”
W Z, presentatosi spontaneamente negli uffici del Comune, riferì
di non essere il proprietario dell'alloggio, bensì l'inquilino e
di avere ospitato il suo amico X, privo di abitazione, dividendo con lui
le spese del canone (ammontante a lire 800.000 mensili).
Alla stregua di ciò, i funzionari comunali disposero,
con effetto immediato, la sospensione del contributo (fino a
quel momento il X aveva percepito lire 3.000.000) e denunciarono
i fatti alla locale Procura della Repubblica, "in riferimento all'art.
640 bis c.p.”.
Interrogati dalla P.G., il W si limitò ad una
generica protesta d'innocenza, mentre il X spiegò di non aver ingannato
o truffato nessuno, atteso che aveva preso effettivamente in sub-locazione
l'appartamento dal suo amico e di aver utilizzato le somme percepite dal
Comune di Sanremo proprio per pagare la sua quota di fitto e le spese di
registrazione del contratto.
All'esito delle indagini, il P.M., in data 23 dicembre
2000, chiese il rinvio a giudizio del X e del W, contestando loro il reato
di cui all'art. 640 bis C.P. ("truffa aggravata per il conseguimento di
erogazioni pubbliche").
All'odierna udienza preliminare, le parti hanno concluso
come da verbale.
Sostiene la difesa che il X, e di riflesso il W, non
avrebbero commesso alcun reato, atteso che tra di loro era effettivamente
intervenuto un contratto di sub-locazione (impropriamente denominato di
locazione) e che nell'atto il W non si arrogava il titolo di proprietario
dell'immobile, bensì di semplice locatore.
In sostanza, secondo la difesa, il X non avrebbe rappresentato
una falsa realtà: effettivamente, i sussidi sarebbero serviti per
dividere col W il pagamento del canone.
La prospettazione dev'essere disattesa per svariate ragioni,
di seguito sinteticamente esposte: - se si fosse trattato di un regolare
contratto, il W non avrebbe avuto motivo per recarsi in Comune a rappresentare
la reale situazione. Invece, egli fece intendere di essersi "prestato
a fare un favore al sig. X, suo amico” (come leggesi nella relazione del
sig. J); - non v'è corrispondenza tra il canone mensile di
locazione indicato nell'atto (lire 550.000) e la quota mensile che il X
avrebbe dovuto corrispondere al coimputato (lire 400.000); - il contratto
di locazione è molto dettagliato (addirittura si compone di otto
pagine) ed in alcun punto di esso vi è un riferimento ad una convivenza
e ad un rapporto di sub-locazione che sarebbe intercorso tra gli imputati
in epigrafe. Al contrario, traspare dall'esame complessivo delle
numerose pattuizioni, che era previsto un uso esclusivo dell'immobile da
parte del X e dei suoi familiari (ad es., clausola n. 5 ove si dice che
il canone dovrà essere corrisposto dal conduttore "nel domicilio
del locatore”; clausola n. 8, per la quale "il conduttore dovrà
consentire l'accesso all'alloggio al locatore” per ragioni motivate; regolamentazioni
relative alla ripartizione delle spese); - è vero che il W nell'atto
si qualificava come locatore e non proprietario (è pacifico che
può anche non esservi corrispondenza tra le due figure). Tuttavia,
la clausola n. 15 prevedeva l'ipotesi "in cui il locatore intendesse vendere
la casa locata”, da ciò implicitamente trasparendo che il locatore
W doveva essere il proprietario dell'immobile.
In definitiva, ritiene questo giudice che, senza alcun
dubbio, il X presentò al Comune di Sanremo un contratto ideologicamente
falso, al fine di ottenere indebitamente dei sussidi pubblici.
*****
Ciò posto, si pone, il problema della qualificazione
giuridica del reato, dovendosi stabilire se si sia in presenza del delitto
contestato (art. 640 bis c.p.), ovvero di quello di recente introduzione
previsto dall'art. 316 ter c.p., intitolato "indebita percezione di erogazioni
a danno dello Stato".
Tale articolo sanziona, al primo comma, la condotta di
"chiunque, mediante l'utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di
documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante ..., consegue
indebitamente, per sé o altri, contributi, finanziamento ..." dallo
Stato o da un ente pubblico; al secondo comma prevede una semplice sanzione
amministrativa, qualora la somma indebitamente percepita non superi lire
7.745.000.
Orbene, la fattispecie in esame integra, sotto il profilo
materiale, tutti gli elementi richiesti dall'art. 316 ter: presentazione
al Comune di Sanremo di un contratto di locazione falso e cioè attestante
cose non vere; ottenimento indebito di un contributo.
Del pari, il fatto sembra integrare anche gli estremi
del reato contestato, di cui all'art. 640 bis c.p.: così la presentazione
del contratto ideologicamente falso, per la prevalente giurisprudenza,
costituisce “artificio e raggiro”, idoneo ad "indurre in errore” i funzionari
del Comune di Sanremo ed a far ottenere al X "un ingiusto profitto”, rappresentato
dalla percezione del contributo.
Allora, la soluzione del quesito può astrattamente
essere duplice:
1) deve trovare applicazione il reato di cui all’art.
640 bis c.p. e, conseguentemente, disporsi il rinvio a giudizio degli imputati;
2) si applica invece l'art. 316 ter, con l'emissione
di sentenza di non luogo a procedere, posto che il contributo percepito
dal X è inferiore alla soglia di punibilità di lire 7.745.000
(prevista, come si è detto, al secondo comma). Non saremmo
quindi in presenza di un reato, bensì di un mero illecito amministrativo.
L"art. 316 ter contiene una “clausola di salvezza”, prevedendo
l'applicazione di tale delitto "salvo che il fatto costituisca il reato
previsto dall'art. 640 bis”.
Stando all'esplicita dizione letterale della norma, si
profilerebbe un rapporto di sussidiarietà tra i due reati, nel senso
che l'applicabilità del 316 ter sarebbe subordinata alla non applicabilità
del 640 bis.
Acutamente osserva la difesa che, se fosse realmente
questa la volontà del legislatore, ne deriverebbe la totale inapplicabilità
del 316 ter, che non troverebbe spazio alcuno e risulterebbe norma inutile:
la condotta da essa contemplata, infatti, rientra sempre nell'ambito del
640 bis, articolo che - per effetto della citata clausola di salvezza -
troverebbe generalizzata applicazione. Occorre, pertanto, compiere
uno sforzo interpretativo, per dare un senso ed attribuire un proprio spazio
alla norma di recente introduzione.
In tale ottica, ritiene questo giudice che i due reati
si pongano tra loro in un rapporto non di sussidiarietà (nel significato
visto), bensì di specialità, individuandosi il 640 bis come
norma di carattere generale (avente un'estensione più ampia) ed
il 316 ter come norma speciale. Il legislatore, in altre parole,
nell'ambito della previsione del 640 bis, avrebbe inteso delineare una
condotta particolare, che si realizzerebbe soltanto con la presentazione
di documenti falsi, o omissione di informazioni dovute (e non anche mediante
ulteriori artifici o raggiri), prevedendo per tale situazione una sanzione
più lieve e addirittura la non punibilità, qualora il profitto
conseguito non superi le lire 7.745.000 (che, tra breve, si convertiranno
in 4.000 euro).
L'adozione del criterio di specialità conduce
a conseguenze opposte rispetto a quello di sussidiarietà, trovando
applicazione la norma speciale (art. 316 ter, peraltro più favorevole),
in luogo di quella generale (art. 640 bis).
Si reputa che l'interpretazione logica (che postula il
criterio di specialità) debba preferirsi a quella puramente letterale
(per la quale andrebbe considerato il criterio di sussidiarietà),
atteso che solo per tale via si realizzerebbe un risultato soddisfacente
e si attribuirebbe un contenuto ad una norma che, altrimenti, ne sarebbe
del tutto priva; deve infatti decisamente escludersi che, con la legge
29 settembre 2000, n. 300, si sia inteso introdurre un'ipotesi normativa
- per l'appunto il 316 ter - priva di qualsiasi efficacia e valenza.
La soluzione adottata stride con la dizione letterale
dell'articolo in questione; non ci si può esimere, tuttavia, dal
sottolineare come, a parere dello scrivente, il 316 ter non costituisca
esempio di buona tecnica legislativa.
Gli artt. 640 bis e 316 ter, infatti, mancano di chiaro
ed adeguato coordinamento tra di loro, determinando argomentate e serie
divergenze interpretativi (manifestatesi nel corso dell'odierna discussione
tra le parti) in ordine ai rispettivi ambiti di applicabilità.
Il 316 ter, inoltre, risente di un'incerta ed approssimativa
collocazione nel sistema del codice.
Esso, infatti, è inserito nel titolo II "contro
la Pubblica Amministrazione", anziché, come forse sarebbe stato
più corretto, nel titolo XIII "contro il patrimonio”.
Nell'ambito del titolo II, l'art. 316 ter è ricompreso
nel capo I, intitolato "Dei delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica
Amministrazione”, lasciando intendere che trattasi di un reato proprio;
invece, soggetto attivo può essere "chiunque” e quindi non esclusivamente
un Pubblico Ufficiale.
Tornando al caso di specie, la condotta contestata al
X ed al W rientra certamente nella previsione del 316 ter (presentazione
di contratto falso; percezione di indebito contributo) e tale norma, in
quanto speciale, dovrà essere applicata.
Certamente, se gli imputati avessero tenuto ulteriori
comportamenti, integranti artifici o raggiri, sarebbe stato possibile uscire
dalla più limitata previsione del 316 ter ed entrare in quella del
640 bis; come si è visto, tuttavia, ciò non si è verificato.
Si ravvisa poi l'ipotesi del secondo comma del 316 ter,
in quanto il X ricevette contributi per lire 3.000.000, al di sotto quindi
della soglia di punibilità (va precisato che la norma si riferisce
ai profitti percepiti e non a quelli percependi).
Va quindi emessa la presente sentenza di non luogo a
procedere nei confronti dei due imputati, perché il fatto da loro
commesso (art. 316 ter, secondo comma c.p.) non è previsto dalla
legge come reato.
Copia della presente sentenza verrà inviata al
Prefetto di Imperia per l'applicazione delle sanzioni amministrative.
*****
Il P.M., in via subordinata, ha chiesto che fosse sollevata
questione di legittimità costituzionale dell'art. 316 ter, in riferimento
all'art. 3 della Costituzione, riscontrandosi ingiustificato ed irragionevole
disparità di trattamento tra chi ottenga un indebito vantaggio economico
di importo inferiore a lire 7.745.000, previa presentazione di un documento
falso
- ad una pubblica amministrazione, ovvero
- ad un privato.
Nel primo caso, l'agente commetterebbe un mero illecito
amministrativo (art. 316 ter, secondo comma) , nel secondo, il delitto
di truffa (art. 640).
La disparità di trattamento sarebbe lesiva del
principio d'uguaglianza, perché verrebbe trattata in maniera più
severa la fattispecie (art. 640) apparentemente meno grave. Cosi
non è, a parere di questo giudice.
Deve premettersi che, per la costante giurisprudenza
della Corte Costituzionale, un sindacato che investa direttamente il merito
delle scelte sanzionatorie del legislatore, è possibile ove "l'opzione
normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza,
vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto
della discrezionalità, che raggiunga una soglia di evidenza tale
da atteggiarsi alla stregua di una figura, per così dire, sintomatica
di eccesso di potere e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni
che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa" (sent. n. 313
del 1995; nello stesso senso, ordinanza n. 297 del 1998).
In altre parole, non spetta alla Corte Costituzionale
rimodulare le scelte punitive adottate dal legislatore nella sua sfera
discrezionale, né di stabilire il tipo e la quantificazione delle
sanzioni, a meno che vi sia contrasto col principio di ragionevolezza nei
termini delineati.
Nel caso di specie, la scelta legislativa non sembra
violare detto principio.
Non pare arbitrario diversificare, sotto il profilo sanzionatorio,
le due condotte dianzi indicate, e cosi:
- se ad essere "ingannato" è stato un privato
(art. 640), il legislatore ha inteso rimettere a lui la scelta di presentare
o meno la querela.
- se ad essere "ingannata" è stata la P.A. (art.
316 ter, secondo comma), si è preferito prevedere una congrua sanzione
amministrativa, da 10 a 50 milioni di lire, evitandosi in tal modo i costi
sociali derivanti dal processo e dall'applicazione della sanzione penale.
Si contrappongono, quindi, un delitto punibile a querela
di parte ed una condotta costituente illecito amministrativo, con previsione
di una sanzione piuttosto elevata (che arriva fino a lire 50.000.000, a
fronte del conseguimento di indebiti profitti non superiori a lire 7.745.000).
Nel primo caso la procedibilità penale è
incerta (la persona offesa deciderà se sporgere querela), nel secondo
la sanzione amministrativa è sicura; nell'ottica del colpevole,
peraltro, non sempre il pagamento di elevata somma di danaro (sia pure
a titolo di sanzione amministrativa) è meno pregiudizievole di una
condanna lieve, in ipotesi, a pena sospesa.
Sembra, in definitiva, che vi sia un certo equilibrio
nel sistema e che i dubbi del P.M. possano essere superati, concludendosi
nel senso dell'infondatezza della questione di legittimità costituzionale
sollevata.
P. q. m.
Il Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Sanremo
visto l'art. 425 C.P.P. dichiara non luogo a procedere ne confronti di
X Y e di W Z in ordine al reato di cui all'art. 316 ter C.P., ravvisata
l'ipotesi d cui al secondo comma di detta norma, così modificata
l'originaria imputazione, perché il fatto non è più
previsto dalla legge come reato.
Sanremo, 20 novembre 2001.
Il Giudice per l'Udienza preliminare
(dott. Eduardo Bracco)
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